BRANDING
Cos'è un "brand" e
cosa significa "fare branding"?
Se si digita su Google “brand significato” il primo risultato ne dà la traduzione letterale, scarna, di “marchio di fabbrica”. Già dal primo approccio con questa parola, soprattutto per i neofiti, appare evidente che il brand non sia un concetto facile da snocciolare e da capire. La definizione di brand = marchio data dall’AMA (American Marketing Association) afferma “è un nome, termine, segno simbolo o disegno, o una combinazione di questi elementi, che ha lo scopo di identificare i beni e i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori, differenziandoli da quelli della concorrenza.” In un’espressione ridotta al nocciolo, infatti, si può dire che il brand odierno è dato da marchio+valori. Quando il marchio si fa portatore di valori immateriali legati alla storia dell’azienda e dei suoi prodotti e al suo “credo”, diventa brand. Ma come siamo giunti, oggi, ad un concetto di brand così complesso? Se sei interessato ad approfondire l’argomento e formarti una cultura a riguardo, continua a leggere e percorri con noi i vari step che hanno fatto la storia del branding; se invece sei soltanto curioso di scoprire cosa caratterizza oggi il sistema di branding, balza agli ultimi paragrafi.
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se vai di fretta
Per andare ancora più a fondo con la comprensione del brand, è utile chiarire qual è la sua origine e fare una panoramica sulla sua storia. La parola inglese “brand” deriva dall’antico norreno, la lingua parlata dalle popolazioni germaniche del nord. La parola nordica in questione è “brandr”, che inizialmente era un sostantivo che indicava un pezzo di legno che brucia; soltanto nel tardo Middle English ha assunto il significato di “segnare in modo permanente con un ferro caldo” ad indicare la pratica del marchio a fuoco con cui un tempo gli allevatori di bestiame contrassegnavano i propri capi per affermarne la proprietà e distinguerli da quelli degli altri allevatori.
Il concetto di marchio ha origine nella preistoria e si consolida con Egizi, Cinesi, Greci e Romani.
La pratica di marchiare il bestiame risale a molto tempo prima, infatti i primitivi usavano dei simboli realizzati con vernice e catrame per segnare gli animali. Le prime fonti certe sulla pratica del marchio a fuoco si hanno grazie ai monumenti funebri egiziani risalenti al 2000 ac, che raffigurano bestiame marchiato. Durante questo periodo i marchi erano utilizzati anche per contrassegnare le merci: i produttori di ceramiche originarie di Cina, India, Grecia, Roma e Mesopotamia, usavano diverse incisioni per identificare il produttore, i tipi di materiali usati e il luogo di produzione; risalgono a 4000-5000 anni fa. Nell’antico Egitto i muratori incidevano dei simboli chiamati “segni degli scalpellini” sui mattoni realizzati per costruire le piramidi. I materiali più antichi con questi simboli hanno circa 6000 anni.
L’aspetto figurativo e iconico guadagna presto importanza.
Già ai tempi dei greci e dei romani esistevano dei rudimentali metodi di fare pubblicità, solitamente con annunci che informavano sull’esistenza di un certo individuo particolarmente esperto di una certa mansione: nome dell’individuo e prodotto/servizio offerto erano messi sullo stesso piano. Fin da subito venne riconosciuta l’importanza dell’aspetto figurativo e iconico: nell’antica Roma, le macellerie esponevano un’insegna raffigurante una fila di prosciutti, mentre i calzolai esponevano un’insegna con uno stivale. A quel tempo l’analfabetismo richiedeva di comunicare attraverso le immagini. Esempi di marchi sono emersi anche in periodo medievale, soprattutto ad opera di tipografie e produttori di carta, per distinguere i loro prodotti. Successivamente, in periodo rinascimentale, artisti come Michelangelo introdussero un nuovo tipo di marchio personale, iniziando a firmare i propri lavori, affidandosi quindi al proprio nome e non a particolari simboli.
Da Marchio a Marca, grazie alle Rivoluzioni Industriali.
Il marchio assume un significato più complesso con l’avvento delle Rivoluzioni industriali, le aziende si trovano davanti ad una nuova sfida, cioè quella di rendere appetibili e degni di fiducia i prodotti di massa e per riuscirci si basano proprio sul marchio e sulla costruzione di una identità di marca, originale e riconoscibile. È in questo contesto e con questi obiettivi che nascono brand come Coca-Cola e Campell’s Soup. A questo stadio la pubblicità era un mezzo ancora sottovalutato e sottoutilizzato, ma un punto di svolta è segnato dall’opera di J.Walter Thompson pubblicata in America nel 1901, una vera e propria guida alle opportunità pubblicitarie in tutti i mercati. In quest’opera compare anche una definizione iniziale di quello che oggi chiamiamo branding. A inizio Novecento, si iniziano a vedere i primi importanti progetti di immagine d’azienda, non c’è quindi soltanto l’applicazione di un marchio ai propri prodotti, ma si assiste ad una progettazione strategica che si riversa poi in ogni aspetto che circonda il prodotto. Il primo emblematico caso si registra in Germania, dove tra il 1907 e il 1914, grazie all’operato del visionario architetto (e non solo) Peter Behrens, l’AEG. Behrens si occupa del restyling del marchio, ma poi allarga il suo campo d’azione ai prodotti, ai punti vendita, agli annunci pubblicitari, alle residenze dei dipendenti, alle fabbriche elevate a simbolo dei valori dell’azienda. L’intera “riorganizzazione del visibile”, ad opera di Behrens, è il primo caso di una concettualizzazione sistematica dell’immagine dell’identità aziendale: “quello dell’AEG è riconosciuto come il primo programma di corporate identity.”
Negli anni Cinquanta si assiste al potenziamento e allo sviluppo della pubblicità.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti sono il leader indiscusso dell’economia mondiale e questo è riscontrabile nell’imponente crescita economica che travolge gli americani a partire dal 1945. In questo contesto per emergere c’è bisogno di potenziare uno strumento, destinato a rivoluzionare il mondo del commercio: la pubblicità. Il primo spot pubblicitario televisivo compare nel 1941 ad opera della ditta Bulova produttrice di orologi, che raggiunge quattromila spettatori. Nel 1952 le domande per gli spot pubblicitari in televisione superavano di gran lunga quelle per la radio e per le riviste: viene inaugurata l’età dell’oro della pubblicità (nota anche come l’era dei “Mad Men”).
Dagli anni 60 il brand non è più solo marchio e coerenza di elementi visivi, nasce la personalizzazione della marca.
La pubblicità ha generato la necessità di sviluppare nuove strategie di branding, che non si limitino a persuadere e convincere i consumatori ad acquistare un determinato prodotto, ma che si appellino al lato emotivo delle persone, generando un sistema di valori e di emozioni attorno al prodotto e al brand. All’improvviso, il branding non consisteva solo nel mettere un logo su un prodotto e di avere coerenze tra gli elementi che ruotano attorno al prodotto, ma si trattava di dare all’azienda una personalità strategica e di dare un volto umano al marchio, dotandolo di un complesso sistema di valori e di emozioni evocative. E per farlo gli annunci pubblicitari in cui prima si mostravano il prodotto e il suo utilizzo, iniziano a raccontare storie, tramite l’utilizzo di una nuova pratica: lo storytelling. Nel 1984 ci ha pensato Apple a cambiare ancora una volta le carte sul tavolo da gioco del branding e della pubblicità. L’impianto narrativo dello spot pubblicitario è innovativo, per trasmettere un’immagine rivoluzionaria e anticonformista del brand, incoraggiando gli spettatori a liberarsi dal conformismo. Lo spot venne usato per pubblicizzare il lancio del primo computer Macintosh, ma il prodotto viene citato soltanto alla fine dello spot, il fulcro infatti era un altro: comunicare al pubblico che la Apple stava compiendo una rivoluzione e stava liberando il mondo dalla mediocrità, dal grigiore e dagli standard conformisti. Negli ultimi anni del Novecento, nasce il concetto di branding contemporaneo, secondo cui esiste “la necessità di dare una dimensione manifesta e concreta ai values identitari che costituiscono la natura stessa della marca.” Il branding, dunque, è un luogo concettuale ma anche tangibile e leggibile lungo tutte le manifestazioni della marca.
Cosa significa oggi fare branding e quali elementi non devono mancare?
Oggigiorno la concorrenza è più dura che mai, pochi marchi possono davvero sostenere che i propri prodotti sono migliori di qualsiasi altro simile sul mercato; inoltre per battere la concorrenza spesso si ricorre ad abbassare i prezzi rischiando una svalutazione della percezione del brand. Si è visto che i vecchi metodi di fare pubblicità non sono più efficaci, il pubblico è interessato alle storie affascinanti che riguardano i marchi di cui si fida, non vuole leggere blog o ascoltare podcast su quanto sia grande e importante l’azienda, ma piuttosto legge blog e ascolta podcast su informazioni utili, storie interessanti e contenuti di valore. Il branding nell’era digitale fa anche i conti con una maggiore consapevolezza sociale e critica dovuta alla democratizzazione delle comunicazioni: più che mai ora i consumatori sono interessati a fare affari con aziende che apprezzano ciò che loro apprezzano e che supportano cause per loro importanti. Tanti studi dimostrano che soprattutto gli acquirenti più giovani sono disposti a pagare di più per questi marchi impegnati nel sociale.
Come fa l’azienda a creare un brand che sia riconoscibile e ricco di valore? Grazie a Brand Identity e Corporate Identity.
La Brand Identity è il design grafico del brand, nell’accezione comune è usata per indicare l’identità visiva della marca, che riflette l’orientamento e gli obiettivi dell’azienda, oltre che la personalità e i valori della marca. Per entrare nel concreto ci caliamo nell’esempio di un’azienda agricola. Quali sono concretamente gli elementi grafici della Brand Identity da potenziare nel nostro caso?
– il logo
– la grafica delle etichette
– la grafica e la forma del packaging, compresi gli imballaggi
– la grafica del materiale promozionale, online e offline
– la grafica del sito web
– la grafica dei post nei social network
– la grafica del materiale per le comunicazioni d’ufficio: email, carta intestata, fatture, biglietto da visita, busta da lettere, cartelle, ecc.
– la grafica degli accessori: calici, cavatappi, tappi, ecc.
– la grafica dell’abbigliamento: grembiuli, t-shirt, divise, ecc.
– la grafica della cartellonistica: cartelli stradali, insegne, ecc.
Come vediamo, gli elementi a cui allargare la Brand Identity di un’azienda sono tanti: più la diffusione risulta capillare e coerente, più si comunica al pubblico un significato forte, di coesione e valore. Per avere una Brand Identity forte la regola fondamentale è che tutti gli elementi grafici risultino coerenti tra di loro e coerenti con i valori del brand. È per questo motivo che noi di V&A crediamo che per avere un risultato soddisfacente sia auspicabile rivolgersi a un unico team di professionisti; infatti affidando la direzione dei vari lavori a professionisti diversi che non lavorano insieme, si rischia di non riuscire a ottenere coerenza tra i vari elementi; ossia ad esempio si rischia che la grafica delle etichette non abbia lo stesso appeal e non comunichi gli stessi valori del sito web e a sua volta il sito web risulti incoerente con i post dei canali social, e così via in un mare di confusione.
Ma oltre alla Brand Identity c’è di più: per esprimere i brand values, non basta dotarsi di un bel design grafico esteso a tutti quegli elementi elencati in precedenza. C’è bisogno di più, c’è bisogno di fare Corporate Identity: l’insieme degli elementi visivi e grafici (=Brand Identity) e degli elementi testuali e comportamentali costituisce la Corporate Identity. Un’azienda per comunicarsi oltre alla coerenza grafica ha bisogno anche di altro: ha bisogno di raccontarsi, di parlare di sé e di far parlare di sé. E questo lo può fare in diversi modi:
– facendo tanto storytelling, tramite materiali testuali riportati su: sito web, canali social, etichette, packaging, newsletter, blog
-partecipando a interviste e comparendo in dirette social, programmi radiofonici, televisivi
– partecipando a fiere ed eventi,
-mettendosi in mostra con speech, conferenze e degustazioni
– organizzando eventi e degustazioni presso la propria cantina o in altri locali
– dimostrandosi interessata e attiva in campagne di interesse sociale, anche con sponsorizzazioni
– partecipando a manifestazioni culturali
– sostenendo opere pubbliche
– rafforzando il rapporto con le istituzioni culturali: ad esempio prendendo parte a seminari universitari
Anche in questo caso, si dovrebbe porre attenzione a trasmettere con coerenza i valori del brand: nei toni con cui si scrive e si parla, nel modo in cui ci si veste, nel modo in cui si arreda il posto degli eventi e così via. Sostanzialmente, qualsiasi cosa secondo voi sia portatrice di valore, se viene progettata e curata, è fare branding. Noi di V&A possiamo aiutarvi a curare tutta la parte della Brand Identity e fornirvi spunti interessanti anche per la Corporate Identity. Se siete disposti a lasciarvi stupire dalla nostra creatività, contattateci!